ELPIDIO JENCO E LA CULTURA DEL PRIMO NOVECENTO
di Carmine Negro
Il 27 e il 28 ottobre 1989 a Viareggio si è svolto un convegno di studi sul poeta Elpidio Jenco, nato a Capodrise, in Terra di Lavoro, e stabilitosi, dopo la prima guerra mondiale nell’affascinante città della Versilia.
Le varie relazioni hanno dato ampio risalto al movimento letterario nato a Napoli attorno alla rivista La Diana, ingiustamente trascurata dalla critica letteraria fino a pochi anni fa. Basta ricordare il commento critico di Francesco Flora, che nella prefazione a Marsilvana, l’antologia postuma della poesia di Jenco, definisce la rivista priva di una linea propria, con il solo merito di aver accolto quanti sentivano fortemente il bisogno in quegli anni di cimentarsi nell’esercizio delle belle lettere
Il convegno di Viareggio, dal titolo Elpidio Jenco e la cultura del primo Novecento, a cui hanno partecipato studiosi di varie università italiane, da quella di Pisa a quella di Verona, da quella di Salerno a quella di Bologna, è stato incentrato sul riscatto di quel momento di rilevante pregnanza nella vita culturale italiana del primo Novecento. ” Per questo – scrive Gaetano Andrisani – ci pare che esso segni l’avvio di una revisione storico-critica che darà buoni frutti in seguito e gioverà a definire la giusta collocazione nella storia letteraria dell’ultimo secolo di un movimento napoletano di indubbia consistenza e validità”. (1)
Il convegno ha avuto anche un altro merito, quello di approfondire la figura e l’opera di Elpidio Jenco, un animatore del fervore della rassegna napoletana, profondamente legato alla propria terra d’origine. E’ lo stesso Jenco a tratteggiare questo aspetto, così scrivendo dell’Inno a Napoli di Umberto Galeota in l’Idea del 19/6/1946 :”Una volta, dal belvedere dei Camaldoli, dove ci aveva spinti uno zelo superiore alle nostre forze, io ebbi a indicargli, sulla distesa che sconfinava a perdita d’occhio, in arco dal Vesuvio, per il Taburno, fino alla linea di turchese esangue dei Tifatini, il paese dei miei parentali, Capodrise. Biancheggiava la mia Arenella, come una nebulosa di casette fra costellazioni fitte di città, villaggi, borgate, castelli, nel cuore della pianura, dietro un velo d’aria rosa e celeste, non più grande d’un gregge addormentato. Bella! Bella da così distante. Progettammo una puntata laggiù, alle vacanze prossime. Corso Umberto poté salutare i miei campi, il campanile quattrocentesco, la chiesa vanvitelliana di Capodrise, la dimora nativa del pittore Domenico Mondo che è rimasto tra i più fioriti decoratori della Reggia di Caserta; rendere un omaggio a quella dell’aedo amico, conoscerne i genitori e i fratelli, affondare i denti bianchi nel rosso prosciutto, nel pan di grano, e nell’oro sugoso delle pesche duràcine di casa mia.
Nella raccolta La Sete di Galeota, una lirica dedicata a me santifica alla poesia la memoria di quel giorno: – Trofeo di grano, oro che il sangue ingemma/ vedo che tu sollevi contro il sole,/ o mio canoro artiere – ” (2).
Il poeta nasce a Capodrise il 9 ottobre 1892, “alle ore meridiane cinque e minuti otto del dì” da Nicola Jenco, “possidente” , e da Camilla Nacca, “sua moglie possidente, seco lui convivente” (4). Il ceto sociale della famiglia , quindi, è quello medio, mentre la cittadina che gli dà i natali dista cinque chilometri e mezzo da Caserta e ventiquattro chilometri da Napoli. Sin da piccolo mostra segni di ingegno vivace e attitudine allo studio, per questo ma anche per il desiderio della madre, donna devota e pia, di vederlo sacerdote, viene “rinchiuso” nel seminario per un lungo periodo. Negli anni in cui Jenco è seminarista le scuole dei preti della diocesi di Caserta, dalle ultime due classi delle elementari alla fine del liceo, sono frequentate da ragazzi di famiglie benestanti, che sebbene non propensi ad intraprendere la via del sacerdozio, vi si iscrivono per fruire dell’insegnamento rigoroso di dotti preti e di insegnanti accuratamente selezionati. Il lungo periodo passato in seminario incide validamente nella sua formazione giovanile, per i riflessi che ha nella vita e nella produzione poetica; la religiosità è una componente attiva della sua opera lirica.
Il periodo passato alla Facoltà di lettere dell’Università di Napoli è fondamentale per l’analisi della produzione di Jenco per le tracce indelebili date da docenti eminenti come il lucano Francesco Torraca, per la frequentazione degli ambienti d’avanguardia della cultura meridionale caratterizzati dalla ricerca del rinnovamento e dell’autonomia. Entra nella redazione della rivista napoletana La Diana che esce tra il 1915 e il 1917 e lì stringe una sincera amicizia con Harukichi Shimoi che gli apre spazi poetici alla libertà dell’immediatezza della sintesi espressiva. La Diana è diretta da Gherardo Marone, uomo di ingegno pronto, fantasia fertile e vis organizzativa considerevole, che cerca di convogliare verso la sua rivista talenti ed interessi di grosso livello senza, tuttavia, delineare una presenza ben definita nel panorama degli studi letterari del tempo. La rassegna napoletana svolge comunque un ruolo assai importante nei primi decenni del Novecento italiano, per le scoperte di personalità di rilievo, per i contatti che consente nei tempi duri dei distacchi imposti dalla guerra. Alcune liriche di Ungaretti nascono proprio a Napoli nel dicembre 1916, quando il poeta è ospite di casa Marone durante la prima licenza, dopo sei mesi passati nelle trincee del fronte di guerra. La rivista, quindi, ha avuto se non altro il merito di aver dato spazio ad Ungaretti e di aver immesso nel circuito letterario italiano la linfa delle tendenze liriche giapponesi, che hanno fortemente condizionato la formazione delle correnti poetiche d’avanguardia negli ambiti europei. I contatti del poeta di Capodrise con Marone sono abbastanza frequenti, come risulta dalla corrispondenza fra i due finora pubblicata, mentre la collaborazione alla rassegna è limitata ad alcuni fascicoli del 1916 e ad alcuni fascicoli del 1917 (3). Nel 1917 è Marone ad essere ospite di una rivista fondata a Capodrise Crociere Barbare, nuovo punto di riferimento della cultura letteraria campana e che riunisce alcuni studiosi della zona, in particolare di Marcianise.
Di quest’ultima rivista lo studioso Gaetano Andrisani ha trovato che alcuni numeri sono custoditi nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mentre nessuna copia è in possesso della Biblioteca Nazionale di Napoli.
Le Crociere Barbare con il loro linguaggio battagliero, marinaro e avventuroso rivelano le prorompenti ansie interiori di tutta una generazione della cultura meridionale che trova in Jenco e nei suoi amici “letterati” gli interpreti più fedeli.
Le ‘”avanguardie” della rivista La Diana si stringono attorno a Crociere barbare (4) e riprendendo gli studi di Gherardo Marone, pubblicano le traduzioni di Akiko Yosano. Giuseppe Ungaretti così conosce i tanka giapponesi, alcuni dei quali di Suikeu e di Akiko, musica di Vincenzo Davico (5).
Quanto sia stato importante l’incontro con la cultura giapponese è lo stesso Jenco a sottolinearlo in un saggio pubblicato a Viareggio.
“Singolare anima di apostolo e di poeta, Harukichi Shinoi, che nel 1916, fervendo in pieno l’avanguardismo letterario post-vociano di La Diana di Napoli, scoprì su quella rivista, a un gruppo di giovani studiosi, le trasparenti meraviglie della nuova poesia giapponese. Illustratore appassionato di Dante in patria, polemista, scrittore, oratore, egli era venuto fra noi, da così lungi, per documentarsi più largamente intorno alla vita, alla lingua e all’opera del poeta della Commedia…. Mezzo efficacemente divulgatore, Sakurà, la fresca rassegna di cultura italo-giapponese, di interesse europeo, di cui ho l’orgoglio di essere stato, a designazione di Shinoi, il redattore-capo, durante il suo periodo più attivo! Essa non fu un bazar orientale di trite curiosità esotiche, ma un vero focolaio di bellezza che si impose al cuore sempre più perché ci aprì la strada a gioie inattese di emozioni, a scoperte di volti fraterni, a comprensioni di spiriti che avevamo creduti distanti come i continenti in cui il destino li balestra a sbocciare. Chi voglia darsi conto del miracolo svegliato in Italia da Shinoi nel lustro che va dal 1916 al 1921 ricorra proprio alle annate di Sakurà. Parecchi ancora la ricordano, e tracce ed echi e riflessi se ne trovano, volere o non volere, in certi atteggiamenti della nostra lirica più viva…” (6).Prampolini nella Storia Universale della letteratura definisce Elpidio Jenco “arioso e limpido” (7); Alfredo Galletti lo descrive come un “bellissimo lirico: un lirico squisito” (8).La vita semplice del paese natio, con le povere case, la verde e fertile campagna, l’incontro con le manifestazioni poetiche della classicità e la lunga e sentita esperienza religiosa influenzarono fortemente la personalità e la produzione del poeta. L’incontro, poi, con i lirici giapponesi, l’amore per la musica, la pittura e la scultura, il contatto stretto con la poesia contemporanea italiana contribuirono non solo a quella elaborazione personale ed autonoma del pensiero, ma anche a quella raffinatezza stilistica che rende preziosi e musicali i suoi versi.Dopo le composizioni Laude a Silo e L’organo del castello, la prima raccolta di liriche, Poesie della primalba (1918), sintetizza le intuizioni sul mondo e sulla vita delle proprie ricerche giovanili.
Congedo
Mi libero negli spazi
da questo grumo di argilla pesa,
e mi sento affiorare
alla superficie dell’infinito,
come una polla d’acqua
che salga dalle radici del mare.
Dopo Acque marine del 1929, dove più forte si sente l’influsso della lirica giapponese, nel 1932 esce il volume Cenere azzurra, edito dall’Istituto del Libro di Urbino.In esso è più forte l’ansia di infinito proprio perché sono più presenti il tormento dell’uomo, i suoi momenti di angoscia, di solitudine, di nostalgia lacerante.
Vecchi
Vecchi guardano taciti al ponente
ove, ricordo del sommerso sole,
un lascito di luce ancor vacilla.
Rabbrusca l’aria; umido, a poco a poco
piove un cielo di cenere dall’alto,dopo il giorno d’autunno, e oscura il mondo.
I vecchi curvi fissano al ponente.
Ancora un sole! sembra che tentenni
già qualche capo sul suo tronco antico.
E in me saetta un brivido: ché scorgo
calar la notte d’ombra spaurita
su quei lembi deserti della vita…
Nel 1955 la pubblicazione di La vigna rossa. “Sempre c’è la fusione delle creature col mondo. Sempre ci sono la volta immensa del cielo e il palpito delle creature anche più piccole, che potevano suggerire ai critici non già soltanto le analogie stilistiche e le parentele tecniche di uno stile inconfondibile. E potevano lasciare che ogni esperienza tecnica (anche il tanka giapponese) esprimeva un momento di interiore e sofferta verità”. (9)
Sera di maggio
A quest’ora al mio borgo
già teneri d’azzurro
rientrano i carri dai campi
spargendo odor d’erbe falciate
fra il tufo dei nidi.
E’ l’ora delle prime lucciole,
dei passerai negli orti,
sotto la delicata falce della luna fienaia.
Un’ansia di distacco è nella vita
là giù soave come non altrove.
Oh, levarmi di là senza più peso
come un respiro della mia terra,
verso l’empirea veglia dello stellato!
Di sera,
quando l’aria è fresca,
e odora d’erba mietuta.
Al tempo della prima guerra mondiale per motivi militari Jenco dalla Terra di Lavoro si trasferì in Toscana e qui rimase prima come professore e poi come preside al Liceo Classico Carducci. Morì nel 1959 e i suoi resti furono trasportati nel borgo che tanto aveva amato negli anni giovanili: Capodrise.
Nel 1992 ricorre il centenario della sua nascita: potrebbe essere l’occasione per una rilettura della sua opera da parte di una terra che tanto avara è stata nei suoi confronti.Elpidio Jenco è l’artista più illustre degli ultimi anni di Caserta e di tutta Terra di Lavoro; la costituzione di un concorso a lui dedicato da parte del Provveditorato agli Studi di Caserta consentirebbe ai più giovani di avvicinarsi ai sogni e alle speranze che in un giorno di canicola ardente, nel castello di Airola, un gruppo di giovani letterati volle esprimere attraverso le Crociere Barbare.
La Regione Campania potrebbe farsi promotrice di un convegno che approfondisca la poesia di Jenco e metta in giusta luce quel movimento costituito da Argira, Cervi, Cestaro, d’Alba, de Pisis, Fiumi, Folgore, Govoni Marone, Meriani, Moscardelli, Onofri, Prati, Ravegnani, Titta Rosa, Venditti, Villaroel, Ungaretti, Zamboni, che intorno alla rivista La Diana tanto ha contribuito alla crescita culturale del movimento letterario napoletano , e non solo di quello, del primo Novecento.
Note
1) G. Andrisani – A Viareggio per Jenco, in La Gazzetta di Gaeta (26.11.1989, p. 8)
2) G. Andrisani – Gli ambiti culturali della formazione di Jenco, in La Gazzetta di Gaeta (25.2.1991, p.9)
3) La Diana 1915-1917. Rifondata da G. Andrisani esce dal 20 maggio 1956 al 4 dicembre 1958 e dal gennaio 1963 al giugno 1971.
4) A. Finizio – Crociere Barbare, in La Gazzetta di Gaeta (25.6.1987, pp. 11/13)
5) G. Andrisani , op. cit. p. 6
6) Elpidio Jenco, Natura e arte, antologia di liriche e altri scritti, p. 167
7) UTET, vol. VI, terza edizione p. 636
8) Storia della letteratura italiana, Vallardi 1957, p.551
9) G. Gaglione – Ricordo di Elpidio Jenco, in La Diana n. 6/11963.
ENCO, Elpidio Dizionario Biografico degli Italiani di P. Bartoli Amici
JENCO, Elpidio. – Nacque a Capodrise, in Terra di Lavoro, il 9 febbr. 1892, da Nicola e da Camilla Nacca. Dopo aver frequentato il seminario diocesano della sua città fino alla quinta ginnasiale, continuò gli studi al liceo classico P. Giannone di Caserta. Si iscrisse poi all’Università di Napoli, dove si laureò in lettere, conseguendovi in seguito anche il diploma in lingua e letteratura francese.
Si formò, giovanissimo, nell’ambiente della rivista partenopea La Diana, ove ebbe modo di conoscere alcuni fra i maggiori artisti e letterati del tempo. Fu in particolare gratificato da un rapporto di stima e di amicizia con G. Ungaretti – da lui considerato il vero caposcuola della nuova poesia -, il cui stile senza dubbio lo influenzò. Divenne intimo amico dello scultore R. Uccella, con il quale visse a Napoli per un lungo periodo, condividendone la partecipazione attiva alle correnti d’avanguardia che in quegli anni fecero della città partenopea un centro culturale particolarmente vivace.
La collaborazione con le riviste letterarie, iniziata con La Diana, proseguì poi per tutta la vita dello J. che scrisse anche in Vela latina, Cronaca bizantina, L’Unione, Crociere barbare, Realismo lirico e Circoli.
Nel 1918, per conoscere E. Pea, insieme con R. Uccella, si recò a Viareggio, da dove però dovette ripartire ben presto, richiamato, prima a Modena poi a Firenze, per il servizio militare.
Frutto di questo primo soggiorno viareggino fu il saggio La poesia di Enrico Pea (Napoli 1918), pubblicato a cura di Crociere barbare.
Al termine del servizio militare tornò a Capodrise, dove nel 1918 fondò la rivista La Primalba. Pur vivendo nel piccolo centro aveva conservato i contatti con l’entourage della Diana, proseguendo anche gli studi di lingua e letteratura giapponese che gli giovarono l’incarico di redattore capo nella rivista Sakurà (1920-21), diretta dal poeta nipponico H. Shimoi, divulgatore in Italia della cultura del suo paese. Nel 1921, grazie a una segnalazione di Pea, partecipò al concorso per cinque cattedre di materie letterarie nel ginnasio G. Carducci di Viareggio; uscito vincitore, nello stesso anno si trasferì a Viareggio, dove per qualche tempo fu ospitato da Pea nella sua abitazione, a villa Paolina.
Lo J. s’integrò in breve tempo nella cerchia degli intellettuali viareggini, entrando a far parte della Accademia degli Zeteti, aperta a tutti gli artisti di passaggio o residenti, raccolti intorno alla figura carismatica di Pea. Il cenacolo, che si riuniva preferibilmente nel caffè Margherita, ospitò G. Papini, P. Pancrazi, L. Repaci, M. Tobino, G. Puccini e molti altri.
Divenuto preside del liceo Carducci, presso il quale insegnava storia dell’arte, lo J., che era tacciato di simpatizzare per le idee socialiste, nel 1925 fu aggredito da alcuni fascisti, per aver offeso, nel corso di un’accesa discussione politica, il principe ereditario Umberto di Savoia. L’incidente gli costò un breve passaggio in carcere, e il rischio, peraltro superato, di non venire riconfermato nel ruolo scolastico. Nel 1934, con la lirica Ho visto la Vittoria in un campo di grano, vinse il premio “Poeti del tempo di Mussolini”, nell’ambito del concorso indetto da L’Artiglio, settimanale della federazione dei Fasci di combattimento di Lucca. Ciò nonostante i rapporti dello J. con il regime non furono mai veramente cordiali tanto che, nel 1943, gli venne ritirata la tessera del partito. Terminata la guerra si iscrisse al partito socialista, venne eletto consigliere comunale e, alle successive elezioni, nominato assessore alla Pubblica Istruzione.
Vincitore di premi letterari di rilievo, come il Giglio (1932), il Caselli (1934), il S. Pellegrino (1948) e il Chianciano (1955), lo J. fu figura di primo piano nella vita culturale della sua città d’adozione: fondò la rivista letteraria Il Sagittario, fu presidente del Centro versiliese delle arti e punto di riferimento per molti giovani esordienti nel campo delle lettere. Legato a L. Repaci, fu uno dei fondatori del premio Viareggio e, sino alla morte, fece parte della giuria.
Lo J. morì a Viareggio il 30 marzo 1959.
Gli esordi dello J. come poeta risalgono al 1911, anno in cui pubblicò a sue spese il poemetto lirico Laude a Silo – Canto orientale antico (Caserta 1911) e L’organo del castello (ibid. 1912).
In questi componimenti giovanili, gravati da forme metriche rigide e da elementi stilistici ancora legati al modo dannunziano, sono tuttavia percepibili alcuni elementi tematici e stilistici che furono costantemente presenti nelle opere successive: l’amore per la natura, la predilezione per le culture orientali e la formazione classica, preminente nel suo bagaglio culturale, come testimoniano le traduzioni di lirici greci e latini, con le quali iniziò a cimentarsi giovanissimo.
Determinante per la sua formazione poetica fu, come si è già accennato, la collaborazione con La Diana, fondata a Napoli da G. Martone nel 1915, dove apparivano le firme di personalità quali F. De Pisis, A. Onofri, E. Pea, C. Carrà, A. Savinio, Ungaretti, C. Govoni, L. Fiumi; i frequenti contatti con la redazione fecero sì che lo J. potesse ampliare i suoi orizzonti culturali in anni in cui la poesia italiana si apprestava a radicali innovazioni. La Diana, infatti, si faceva promotrice di una poesia libera dalle tradizionali costrizioni retoriche e svincolata dal realismo, contribuendo a creare l’humus ideale per la nascita dell’ermetismo; nella medesima prospettiva vanno inquadrati gli ampi spazi dedicati alla diffusione della lirica giapponese, tanto cara allo Jenco.
Quale traduttore e divulgatore di autori nipponici antichi e moderni, lo J., contribuì notevolmente alla diffusione della lirica giapponese che, nella forma stilizzata dei tanka e degli haikai, si avvicinava molto alla poetica del frammento che tanto influenzò gli ermetici. E, appunto nel saggio La poesia di Akiko Yosano (Napoli 1917), lo J. delinea acutamente il legame tra i poeti d’avanguardia della sua generazione e i giapponesi, nel segno di un impressionismo cosmopolita che accomunava esperienze culturali apparentemente lontanissime (p. 16).
Nel 1917, conclusasi l’esperienza della Diana, nacque a Marcianise Crociere barbare, fondata da un gruppo di giovani intellettuali, fra cui lo J., che volevano proseguire l’opera di svecchiamento della poesia italiana. Tale finalità appare evidente nel Poema del dopopioggia. N. 3 op. 5 sol diesis maggiore (Napoli 1917), in cui lo J. è costantemente alla ricerca della musicalità interna di un verso progressivamente liberato dagli impacci metrici.
La struttura data alla composizione è analoga a quella di un concerto, con le sue scansioni in movimenti. D’altro canto il profondo interesse dello J. per la musica è confermato da uno studio condotto sul musicista V. Davico (in Antologia della Diana, ibid. 1918, pp. 72-76), il cui fraseggio musicale, ricco di suggestioni impressioniste sulla scia di C.-A. Debussy, viene assimilato a quello dei poeti giapponesi, per i cui componimenti Davico aveva creato alcune musiche d’accompagnamento.
Nello J. era dunque maturata la convinzione che l’interrelazione tra differenti forme artistiche fosse necessaria e auspicabile per giungere a una liricità essenziale ed evocativa, in grado di esprimere le suggestioni della memoria e della fantasia, e ciò appare già evidente in Poemi della prim’alba (ibid. 1918), e ancor più nelle successive raccolte: Notturni romantici (ibid. 1928) e Acquemarine (ibid. 1929).
In esse, senza rinnegare del tutto la tradizione – e il richiamo è soprattutto a G. Pascoli -, la ricerca si concentra sul suono della parola e sul colore, nella volontà di raggiungere una sorta di impressionismo poetico vicino ma non coincidente con l’ermetismo, anche se alcuni critici hanno riscontrato in queste prove un eccesso di tecnica: G. Titta Rosa, per esempio, parla di “squisiti lavori in ferro battuto” (cfr. L’Italia letteraria, 18 sett. 1932).
Nel 1932 pubblicò Cenere azzurra (Urbino), raccolta di canti dedicata a una donna amata, morta precocemente.
Nessun tratto biografico realistico connota questa figura femminile (chiamata simbolicamente Ofelia D’Alba, detta l'”Amara”), che è disegnata quasi in veste di vergine preraffaellita; gli eventi legati alla vicenda personale sono addolciti dalla memoria e trasfigurati nella contemplazione della natura; l’amata diviene di volta in volta farfalla, fiore o usignolo e la consapevolezza della fatale caducità di tutte le cose, che è nel mondo della natura, trasforma la disperazione in pacata rassegnazione per il destino umano.
In Essenze (1916-1932). Poesie vecchie e nuove (introd. e annotate da F. Garibaldi, Genova 1933), un’antologia di liriche scelte da A. Capasso con la collaborazione dello J., confluiscono, in una produzione sempre più intima e rarefatta, le influenze sia del lirismo greco sia della poesia giapponese, i due principali punti di riferimento di tutta la poesia dello Jenco. Nel 1955 pubblicò La vigna rossa (ibid.), raccolta di liriche composte sulla falsariga degli haikai e dei tanka giapponesi, che gli valse il premio Chianciano. Alla sua morte venne, infine, pubblicata un’antologia poetica, La Marsilvana (Siena 1959), con un saggio introduttivo di F. Flora, in cui tra l’altro il critico afferma: “il più intimo sentire di Jenco, il pensiero dominante, è nella professione stessa della poesia come mediazione e riscatto” (p. 15). Ed è in questa medesima chiave che deve essere considerata la costante attività dello J. come critico militante e attivissimo operatore culturale.
In particolare lo J. partecipò attivamente al dibattito sull’ermetismo, che aveva seguito fin dagli esordi, di cui tuttavia non approvava gli eccessi, stigmatizzando l’involuzione che, a suo parere, aveva subito cadendo in tecnicismi astrusi e intellettualistici; insieme con Fiumi, Capasso e altri sottoscrisse la Lettera aperta ai poeti italiani sul “realismo” nella lirica (agosto 1949, in Pagine nuove [Roma] e Il sentiero dell’arte [Pesaro]), dove si sosteneva la validità di una poetica che potrebbe essere definita “realismo lirico”, in quanto sottolineava la necessità di mantenere anche in poesia il contatto con la realtà, rifuggendo la voluta oscurità perseguita da quelli che lo J. definiva epigoni dell’ermetismo.
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia esaustiva delle opere dello J. si rimanda ad A. Finizio, Il poeta E. J., in Gazzetta di Gaeta, XV (1987), 7, pp. 9-15. Vedi ancora: M. Gaglione, E. J., in L’Unione, XXIV (1916), 17, pp. 1 s.; G. Marone, Il “Poema del dopopioggia”, in Crociere barbare, I (1917), 3, p. 26; B. Chiara, Fra i giovanissimi. E. J., Napoli 1919; M. Gaglione, E. J.: i poemi della prim’alba (rec.), in Il Desco, I (1920), 3, pp. 108 s.; R. Franchi, in Solaria, XII (1928), pp. 57 ss.; E. Palmieri, E. J., in Orizzonti. Il Novecento ed altri studi, Foligno 1930, pp. 161-193; A. Bocelli, E. J., in Nuova Antologia, 1° genn. 1933, p. 142; M. Battistrada, La poesia di E. J., Ascoli Piceno 1934; N. De Paulis, E. J., in Cenni storici della città di Marcianise e dei suoi figli illustri, Marcianise 1937; E. Fusco, La lirica, II, Ottocento e Novecento, Milano 1950, pp. 534 ss.; L. Fiorentino, Mezzo secolo di poesia, Siena 1951, pp. 246-253; D. Carlesi, La fedeltà lirica di E. J., in Realismo lirico, VI (1955), 1, pp. 36 s.; M.G. Lenisa, ibid., 10 bis, pp. 42 s.; F. Flora, Prefazione a E. Jenco, Marsilvana, cit., pp. 9-33; Id., E. J., in Letterature moderne, X (1960), 6, pp. 773-785; F. Palmerio, Ricordo di E. J., in Palaestra, III (1964), 6, pp. 302-312; Id., E. J. a Viareggio, Viareggio 1965; G. Titta Rosa, E. J., in Vita letteraria del Novecento, III, Letture e memorie, Milano 1972, pp. 161-165; A. Galletti, Il Novecento, Milano 1973, p. 653; G. Andrisani, E. J. nella poesia del ‘900, Capua 1975; M. Lami, E. J. e la cultura del primo Novecento. Atti del Convegno di studio… 1989, a cura di M. Lami, Viareggio 1991; G. Andrisani, Gli ambiti culturali della formazione di J., in Gazzetta di Gaeta, 1991, n. 2, pp. 1-9; A. Di Benedetto, in Critica letteraria, 1993, n. 1, pp. 202 s.
(trascrizione a cura di Donato Musone)
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