Il passaggio dalla poesia alla politica é il momento critico di ogni partito. Si tratta sempre di sapere quanto dell’ antico entusiasmo, della prima fede gli uomini di questo partito riusciranno a conservare attraverso i ne­cessari adattamenti della vita pratica. È noto che il partito socialista italiano non ha saputo reggere a questa prova. Diventato una forza di governo, si è preoccupato sola­mente di usare la sua forza ai fini di interessi perso­nali.

Tuttavia il seme che ha germogliato nella rigogliosa pianta del partito, come l’ orgoglio vero di esso, sono quelle nature o mistiche o poetiche, che, sul primo formarsi del partito, si sono strette intorno ad un’idea e rompendo la compattezza arida e desolata del luogo, hanno,

assicurato le prime condizioni della vita. Ma questi stessi uomini, per la somma enorme di energie che hanno do­vuto spendere contro l’ ingratitudine della natura, sono poi inadatti a cogliere i frutti maturati sull’albero, e attendono, rattristati , che mani rapaci, allungantesi dal folto, rubino insieme la fatica e l’onore dei pionieri.

Ho conosciuto molti di questi pionieri. Taluni sono cresciuti intorno a me e con me. Nessuno di essi è giunto ai fastigi della ricchezza o degli onori. Molti sono caduti sotto la croce del proprio martirio o, disillusi, hanno riparato nella torre di avorio dell’ arte e della scienza, per sfuggire ai contatti dvi lestofanti pervenuti al successo sulle fatiche non proprie.

Pochissimi si rassomigliarono a questo mio amico dei primi anni, a questo Domenico Santoro, che io vidi crescere, sorridere, meditare e sfiorire nel breve giro di un decennio , lasciando, per unico re­taggio, un incancellabile ricordo di sè nella memoria dei sodali e dei suoi.

Recava nel sorriso mesto del volto dorato le tracce dell’immancabile destino. I suo lunghi silenzi, nelle ami­chevoli conversazioni, parevano anticipare il silenzio dell’Ade, dove il suo spirito ellenico è disceso, come al riposo legittimo. Le brevi contrazioni del volto, i fugaci accendimenti dell’occhio luminoso, rapidamente repressi, l’accenno a un contrasto di parole, che sollevava il petto, ma si spegneva nella bocca, lasciando sul volto soltanto la traccia di una tempesta domata; quando, nelle, ami­chevoli conversazioni o nei turbolenti dibattiti delle opi­nioni, egli urtava in un mondo non suo; tutto ciò pareva indicare che egli si sentiva segnato dal destino. Pareva che avesse il presentimento che la morte gli avesse dato un prematuro convegno nei tenebrosi abissi del nulla e egli suo magnifico fidanzato, non avrebbe potuto sfug­gire. Le resistette con le armi alla mano, sui campi di Tessaglia, e la imperale fidanzata fu vinta di quel bello ardimento. Ma un giorno in cui più languido, più sprov­visto, più stanco, si giaceva, ella gli carezzò con la sua carezza metallica il cuore di fanciulla: una stretta divina, che mozza fiato, calore, movimento e stritola il delicatissimo pernio sul quale gira la grossa macina della vita.

Così la morte volle dimostrargli il suo grande amore, perchè veramente ella non amava che le cose grandi e buone, grandi come lei, che, sopravvive come regola suprema a tutte le manifestazioni caduche, buone come lei, che co­nosce il supremo fastidio della eternità e lo risparmia ai fedeli.

Il mio amico Santoro aveva bella la persona, come delicato e adorno di eleganze l’animo. Egli non era fatto per i commerci lucrosi o per la carriera tranquilla. Il suo spirito armonico tendeva a un fine di armonia anche nel vivere pratico. Era offeso naturalmente dalla disonestà, che é una brutta lebbra morale come dall’altrui miseria che é una macchia composta di tutti i più pugnanti colori. Ma egli non era un contemplativo. Alieno ed estraneo, come egli sentiva, a questo mondo di miseri e di disonesti, fremeva di sdegno a doverci vivere in mezzo. Lo urtò, lo investi, l’assaltò, lo colpì; la mole scossa, traballando, rovesciò su di lui il rudero più malfermo e sconcio. Vi soggiacque, perché è un destino che don Chisciotte stramazzi sotto i colpi di un barbiere ma­scherato e il carnefice sia generalmente il più spregevole e ignoto degli uomini!

Tuttavia che cosa avrebbe egli fatto in mezzo alla società dei suoi contemporanei, io non so capire. Natura mise in lui l’anima di un poeta. Della vita egli noi poteva vedere che il ritmo supremo, non le infinite man festa­zioni contradittorie dalli quali si compone; degli uomini egli non poteva intendere che la umanità, cioè quel certo acino, spesso invisibile nell’ individuo, per cui l’uomo è diverso dalla bestia. Perciò egli sorrideva. Ed il suo sorriso era ambiguo e oscuro come il sorriso che Leo­nardo dipinge sulla bocca delle sue donne, favella sco­nosciuta, fatta di segni intraducibili, fra l’uomo marcato dal destino e l’universo. E ormai chiaro che egli vedeva delle cose, che noi non vediamo e che non possiamo vedere, perché non siamo poeti, e il misticismo delle nostre` anime conosce soltanto l’acidità del disprezzo. Invece egli sorrideva e sorrise finché il suo povero cuore non fu frantumato dalla stretta metallica della sua invincibile amica…

Placato dagli anni il dolore , la sua malinconica im­magine rivive dal mondo delle rimembranze, come dalla sua vera patria. In realtà non era possibile che egli vivesse fra i negozi e i mercati, fra i negozi e i mercati delle cose e i negozi e i mercati delle anime. Troppo vasto saliva alle nari il fetore e la nausea sconvol­geva le visceri. Vederlo soffrire fra quelle cose e fra quegli uomini era una scena di supplizio insopportabile, il suo partito aveva smessa la poesia ed era tutta po­litica, cioè contratti, affari, opportunismi e adattamenti. I suoi amici o prorompevano nell’invettiva contro questo orribile tradimento o si chiudevano nel silenzio delle loro  delusioni. Più che mai egli diventava straniero e remoto dai suoi contemporanei, dai suoi compagni, dai suoi fratelli. In realtó altro non gli restava se non morire. Perciò un barbiere mascherato potette stramazzarlo….Egli lasciò consumare, senza resistere, l’orribile delitto. Le ombre lo attiravano irresistibilmente verso il loro sereno.

Un poeta moriva. Un poeta, la cui vita delicata, ar­moniosa, verginale, candida, di un candore di luce lunare, era stata la sua più bella poesia. Arturo Labriola

BIBLIOGRAFIA SU DOMENICO SANTORO

(1)Cfr. Due Scritti di Domenico Santoro con la prefazione di Arturo Labriola.  2^Edizione 1910

cfr. Salvatore Delli Paoli, Il Potere della miseria: La Congregazione di carità di Marcianise tra Ottocento e Novecento; Edizione 1998.

cfr. Alberto Marino(1934), Tommaso Zarrillo, Domenico Santoro. Il Garibaldino, Il Politico, Il Letterato, Guida Editori, 2003 .

 cfr. Alberto Marino (1934)  Socialismo ed altro:fatti e personaggi della Marcianise nella prima metà del Novecento, prefazione di Tommaso Zarrillo. 2005.

cfr. Alberto Marino (1934) Il Cavaliere dei pezzenti; prefazione di Domenico Rosato. Ed.2009.

LABRIOLA, Arturo. – Nacque a Napoli il 21 genn. 1873 da Luigi, un piccolo artigiano, e da Matilde De Laurentiis. Morì a Napoli il 23 giugno 1959. Cfr. Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 62 (2004) di Fulvio Conti.

 (1)   Due Scritti di Domenico Santoro con la prefazione di Arturo Labriola.  2^Edizione 1910

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